“La luce della jnestra” Riflessi di umanità dal carcere
Finalmente un assistente sociale che non scrive un libro per assistenti sociali!
L’epistolario tra Carmela Cosentino (volontaria nel mondo del carcere) e Carmelo Guidotto è un’occasione da non perdere per ogni persona (anche… assistente sociale) che desidera affacciarsi ad un percorso di cambiamento.
Il valore di questo volume si fonda su una “magia”. Carmelo cambia, Carmela cambia ed anche il lettore si scoprirà diverso, migliore, con uno sguardo benevolente verso di sé, gli altri, il mondo.
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Dalla Prefazione della “Luce della jnestra”:
“Sono Carmela Cosentino, assistente sociale, Laureata in Pedagogia e volontaria.
Ho incontrato Carmelo Guidotto nel 2007, nel carcere di Catania durante un laboratorio di attività espressive. Carmelo chiese un libro di teatro siciliano, cominciò così la nostra corrispondenza epistolare.
Nella lettera di ringraziamento Carmelo scrisse: “… ho ancora fresco il ricordo dell’unico incontro fatto a Catania con il gruppo del laboratorio, una cosa… che mi ha aperto un nuovo modo di vedere le cose e più di tutto le persone… Mi piace leggere, solo leggendo si va fuori di qua e si vivono vite che aiutano a continuare a vivere”.
Le sue parole diventano l’aggancio per nuovi invii di libri e successivi commenti da cui colgo la capacità di “viaggiare” poeticamente tra le parole, con leggerezza e intensità.
Carmelo sconta una condanna con “fine pena… mai”!
La corrispondenza si svolge dal 2007 ad oggi; ho riportato le lettere di Carmelo fino al 2009, delle mie lettere solo alcuni brani. A partire dal 2010 ho selezionato le lettere di Carmelo più significative del suo percorso.
Il racconto di Carmelo attraversa argomenti diversi: famiglia, amicizia, lettura, musica, valore delle appartenenze culturali, ritmo del tempo in carcere e descrive il percorso trasformativo della sua coscienza.
Il suo “fare” quotidiano scandito da ritmi, suoni e odori del carcere non gli impedisce di “farsi” persona progressivamente cosciente di sé e dell’innato umano desiderio di libertà, negato nella dolorosa esperienza carceraria. Detenuto e libero allo stesso tempo.
Carmelo porta avanti un concreto percorso di rielaborazione della sua esperienza deviata, arrivando a sostenere che poco vale il pentimento senza cambiamento.
Gli stessi legami familiari mantengono viva tutta l’intensità dei rapporti con quest’uomo che è stato capace di restare significativo e presente pur nella sua assenza fisica.”
Perché proporre la lettura dell’epistolario?
- Presenta una vita vissuta e narrata dall’altra parte.
- Riflette sull’importanza della rieducazione del mondo carcerario fondata oltre che sul lavoro, anche su esperienze culturali, conoscenze, confronti problematici.
- Rivela il valore della lettura, elemento di promozione e di cambiamento.
- Mostra gli incontri come “cifra” delle esperienze di Carmelo, sia negli anni in cui si è determinata la devianza, sia negli anni successivi fino al presente, in cui incontri e relazioni assumono una valenza evolutiva.
- L’incontro e la relazione tra detenuto ed operatori suggerisce una diversa impostazione del rapporto tra il dentro e il fuori dal carcere.
- L’uomo della pena non è più l’uomo del delitto: cosa ci sta a fare oggi Carmelo in carcere, non meriterebbe di essere riqualificato come Uomo?
* La Postfazione del libro è a cura di Giuseppe Trevisi *
* La Pubblicazione e diffusione del libro sono attività culturali senza alcun fine di lucro *
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Recensioni
Luigi Accattoli
La prigione è metafora di tante cose e sul pianeta c’è la cella del monaco e quella del carcere: parto da questo doppione per dire come anche il carcere possa portare lontano. Racconto di tre detenuti che di strada ne hanno fatta e uno è arrivato a farsi monaco.
Il doppio della cella m’attirava da quando alla vigilia del matrimonio, ero andato con lei a Camaldoli a prendere la benedizione di don Benedetto Calati: «Ci sarebbe la clausura ma venite tutt’e due lo stesso. La cella del monaco è per la libertà, non è una prigione».
La cella che si sdoppia in carcere e in chiostro ancora di più m’attira da quando, otto anni addietro, presi a occuparmi di volontariato carcerario con la San Vincenzo de’ Paoli. Faccio parte della Giuria del Premio Castelli e ogni anno andiamo in un carcere diverso per la premiazione. Nel 2014, a Bari, mi capitò d’intervistare Massimiliano Taddeini, vincitore del primo premio, che così motivò la decisione di narrare la sua storia: «Il carcere è come un convento: tra quattro mura hai tempo per cercare dentro».
È quello che è successo a tanti partecipanti al concorso, come ho potuto vedere nei 2.000 testi, all’incirca, che ho letto fino a oggi. Cercando dentro, qualcuno si fa scrittore e qualcuno – addirittura – scopre l’orazione mentale.
Inattesa utilità del silenzio comandato
È il caso del primo libro che suggerisco a chiunque si occupi di carcere o di meditazione: Una via nel deserto. Commento alla Regola di san Benedetto per chi è in carcere (LEF, Firenze 2019, pp. 282). L’autore, James Bishop, che fu in carcere negli USA per dieci anni a seguito di gravi reati, appartiene oggi alla Comunità mondiale per la meditazione cristiana ed è un oblato benedettino.
Come la parola «cella», anche la parola «prigione» può avere il suo doppio: «Attraverso la Regola e la meditazione – scrive Bishop – sono arrivato a capire come abbia vissuto in una prigione autoimposta per molti anni e come, dopo essere stato spedito in una prigione vera, mi sia sentito più libero».
Secondo Bishop, per più aspetti il carcere è «simile a un monastero»: per lo «stretto contatto» tra gli abitatori dei due luoghi, perché in ambedue «la vita è molto inquadrata», perché là e qua vi sono momenti di silenzio «comandato» che aiutano a condurre «il lavoro su di sé», perché il detenuto è «povero di tutto» come un monaco. Dalla povertà il monaco che fu carcerato trae una metafora alta: «Quando entriamo a far parte di questo mondo non possediamo niente e anche dopo che ce ne siamo andati non possediamo niente».
Altre più puntuali somiglianze il nostro le segnala tra la «cella d’isolamento» (che sperimentò per sette mesi) e la solitudine che puoi raggiungere con la meditazione. Tra la prigione e la «scomunica» della Regola benedettina, cioè la separazione del monaco ribelle dalla comunità: «Chi è in prigione è scomunicato dalla società». Tra la scuola d’umiltà dell’una e dell’altra, che procedono ambedue facendo tutti uguali già nel vestito, nel taglio dei capelli, nel cibo.
Ho letto con emozione le pagine del monaco che viene dal carcere. L’intento di rivolgersi in primo luogo «a chi è in prigione» l’induce a forti semplificazioni e a qualche ingenuità di storia, di Bibbia e di liturgia, che però non intaccano la convincente serietà con cui accoglie la vocazione cristiana e se ne fa apostolo.
Ho ammirato questo fratello che si presenta come «un prigioniero perdonato», con un motto che ricorda quello di «peccatore perdonato» di papa Francesco.
Per fortuna un giorno vennero ad arrestarmi
Ho trovato rispondenza tra il cammino meditativo che lo porta ad amare il silenzio della cella e il racconto del percorso compiuto dal monaco a me coetaneo Enzo Bianchi: «Anch’io ho conosciuto la cella come luogo di reclusione ma poi, perseverando, l’ho scoperta come luogo in cui si impara ad abitare con sé stessi» («Il cielo in una cella», su La Stampa – TuttoLibri, 31.7.2004).
Ho lodato Bishop quando commenta con la sua vicenda il Salmo 119 («Bene per me se sono stato umiliato»): «La maggior parte delle persone che sono in prigione non avrebbe interrotto i propri crimini se non fosse stata rinchiusa: è stato così anche per me».
Posso attestare che tante storie che i detenuti inviano al nostro concorso di scrittura contengono l’affermazione: «Per fortuna un giorno vennero ad arrestarmi».
Il mio apprezzamento maggiore va infine alle pagine che trattano della riparazione del male: «Ci sono persone vittime del mio crimine. Non posso dare loro alcuna restituzione. La cosa migliore che posso fare è aiutare in generale gli altri: in questo modo è possibile generare più bontà nel mondo di quanta ne abbiamo ricevuta. Forse un giorno il bilancio tornerà in pari».
Informandomi sulla meditazione in carcere ho scoperto che è un’arte insegnata con buoni risultati sia da monaci cristiani sia da buddhisti. «Non c’è poi molta differenza tra la vita cenobitica e la vita in prigione», afferma in un’intervista Dario Doshin Girolami, che dirige il Centro Zen l’Arco di Roma e tiene corsi di meditazione nel carcere di Rebibbia.
La mia vita rubata da faide e ’ndrangheta
Bishop l’ho letto ma non l’ho incontrato. Il secondo autore che segnalo l’ho invece incontrato e l’ho avuto accanto a tavola: si chiama Carmelo Gallico, è il vincitore del primo premio dell’edizione di quest’anno del Premio Castelli di cui ho già parlato (cf. Regno-att. 18,2019, 575s). Ha avuto l’autorizzazione a essere presente nel carcere di Matera al nostro appuntamento annuale e mi ha dato un suo libro: Senza scampo. La mia vita rubata da faide e ’ndrangheta (Edizioni Anordest, Lancenigo [TV] 2013, pp. 251).
Gallico – che è stato a più riprese in carcere per un totale di 16 anni e che ora è agli arresti domiciliari in attesa di giudizio – si dice innocente e vittima incolpevole d’essere nato in una famiglia di ’ndrangheta (i Gallico sono di Palmi), con diversi familiari uccisi o variamente condannati: «Ma il modello mafioso è stato sempre da me avversato e mai perseguito». Entra ed esce dal carcere da quando aveva 25 anni e ora di anni ne ha 56. È autore di più volumi e vincitore di diversi premi. Ha una scrittura asciutta, forte.
Bishop distingue tra «prigione autoimposta e prigione vera». Gallico tra «prigioni di fatto» e «prigioni reali». Come Bishop trova la libertà nella meditazione, Gallico la scopre nella scrittura: «Avevo finalmente scoperto il modo di sconfiggere il carcere. Con le mie parole aprivo brecce nelle sue spesse mura, parlavo alla gente, suscitavo emozioni, creavo ponti con il resto del mondo. Ero vivo. Quella era la mia vera libertà».
Quella di «sconfiggere il carcere» è per Carmelo l’impresa della vita. Nel teatro del carcere di Matera gli abbiamo chiesto di leggere il testo premiato ed egli, a premessa della lettura, ha confidato la sua utopia del superamento del carcere, un’utopia che i volontari carcerari condividono con i detenuti, nella speranza che un giorno la privazione della libertà sia concepita come una misura estrema e d’emergenza, da limitare il più possibile.
Se la luce della ginestra entra nella tua cella
Questo sogno a Matera il detenuto e scrittore Carmelo Gallico l’ha così proposto: «Privare qualcuno della libertà è peggio che infliggergli la morte, e l’uomo ha scelto di costruire invalicabili muri dentro cui imprigionare altri uomini rei di un qualche male. Questa concezione del carcere è espressione dell’uomo che si fa lupo per l’uomo, perché il carcere, immaginato come luogo di punizione e relegazione del male, è esso stesso prodotto e strumento del male, non la sua soluzione, ma la sua perpetuazione. Per dare risposte e soluzioni al male, l’uomo dovrà imparare ad attingere dalla parte più nobile della propria umanità, e libero da primitivi istinti di violenza, non avvertirà più il bisogno di mettere uomini in catene».
Il primo autore che segnalavo trovava la libertà nella meditazione. Il secondo nella scrittura. Il terzo la trova nella lettura e nella scrittura tra loro contaminate. Si tratta di Carmelo Guidotto, autore con Carmela Cosentino di un epistolario pubblicato con il titolo La luce della jnestra. Riflessi di umanità dal carcere (Ancora, Milano 2019, pp. 249). Jnestra in siciliano è ginestra e il titolo è preso da un brano dove Carmelo torna a sentirsi «libero dentro» contemplando una foto con «una macchia di jnestra bellissima» che gli ha mandato Carmela.
Carmelo Guidotto è condannato all’ergastolo, Carmela Cosentino è un’assistente sociale che gli diviene amica di penna. Lei gli porta e spedisce libri, narra concerti e mostre. Lui si giova di ogni appiglio: «Io sono onnivoro, leggo di tutto. Solo leggendo si va fuori di qua».
In Carmelo – che fa anche il volontario nella biblioteca del carcere – la scrittura fluisce naturale come figlia primogenita della lettura. «Scrivi, scrivi» l’incoraggia lei. E lui asseconda, anzi precorre l’invito: «Non faccio altro che leggere e scrivere», confida trasognato. E confessa che scrivendo sempre si sente «più leggero».
Sono stato sempre fuori con la mente
È anche grazie al carteggio con Carmela che alla domanda della direttrice «se io mi vedevo fuori», il nostro può rispondere: «Io sono stato sempre fuori con la mente». Quel carteggio – come scrive nella Postfazione il curatore del volume, Giuseppe Trevisi – «è un percorso di educazione alla virtù della fiducia alimentata dalla speranza e fondata sull’amicizia, che potremmo anche chiamare riconoscimento della comune umanità».
Carmelo è sorpreso dai «cambiamenti vissuti nel carcere» e la sua conclusione è vicina a quella del detenuto che si è fatto monaco: «Se non fossi qui dentro avrei mai avuto la fortuna di aprire la mia mente?».
Fonte: Rivista “Il Regno”
31/07/2019
La luce della jnestra. Riflessi di umanità dal carcere (editore Ancora, 2019), intensa corrispondenza tra Carmelo Guidotto, detenuto a vita (“fine pena mai”) e Carmela Cosentino, assistente sociale ormai in pensione, ma tuttora impegnata in attività di accompagnamento, accoglienza e prossimità agli ultimi. Un libro che ti prende piano piano,. pagina per pagina, mentre si approfondisce una relazione di fiducia e di amicizia tra due persone tanto diverse per storia, condizione di vita e opportunità, ma anche tanto simili nella radicale domanda di senso e di gusto della vita, e nella irriducibile voglia di “restare umani”, o, come dice spesso Carmelo Guidotto, di “riuscire a vedere sempre il bicchiere mezzo pieno”. Un libro sulla speranza, sulla resilienza (anche senza nominarla) e sulla possibilità dell’incontro vero tra persone. Ma soprattutto, SORPRENDENTEMENTE, UN LIBRO CHE TI FA INNAMORARE DEI LIBRI. Vale la pena di leggerlo: magari gustandolo a piccoli sorsi, un paio di lettere per volta, anche sotto l’ombrellone Non ve ne pentirete. (F.Belletti).
Fonte: Cisf Famiglia Cristiana
No, non si tratta di mail, di sms o di messaggi whatsapp. Stavolta la comunicazione avviene tramite un epistolario, come si usava tanto tempo fa: si tratta di lettere, lettere vere e proprie. Quelle, per intenderci, attraverso le quali potevamo sentire il profumo della carta, dell’inchiostro, e quello ancor più forte dei sentimenti. Cosa singolare, inoltre, i due “comunicatori” sono un ergastolano e una volontaria che, lettera dopo lettera e attraverso proprio quelle missive, creano e costruiscono un rapporto di amicizia autentica.
Potrete leggere tutto sul libro, commovente ed emozionante, che ambedue hanno firmato e pubblicato per i tipi di “Ancora” dall’evocativo titolo “La luce della jnestra – Riflessi di umanità dal carcere”. Hanno lo stesso nome, Carmela Cosentino e Carmelo Guidotto. Da Karmel, un nome ebraico che significa giardino, frutteto. Due realtà fuse in Sicilia dove i giardini sono anche frutteti, aranceti e limoneti, che profumano di zagara. Lei è un’assistente sociale, laureata in Pedagogia e ha ottantadue anni. Lui di anni ne ha sessanta, é un catanese, originario di San Cristoforo, e sconta una condanna con ‘fine pena mai‘, un’eternità che nei documenti viene indicata con la data della scarcerazione, 9999.
Se avete in mente l’idea dell’ergastolano feroce e incolto, primitivo e insensibile, toglietevela dalla testa. Guidotto, forse lo è stato ma oggi non lo è più. E non perché nell’aprile del 2018 ha conseguito la laurea in Scienze politiche. Ha seguito un tortuoso cammino, lungo più di vent’anni, fatto di libri/parole/concetti/idee/sguardi dentro se stesso e fuori, incoraggiato, guidato dagli interventi della sua amica ‘di penna’ che gli invia romanzi e agili saggi, lo introduce alla poesia, lo aiuta ad interrogarsi sul senso della scrittura. Il tutto con delicatezza, senza mai strafare, e soprattutto senza stancarsi, con fedeltà.
“So tanto oggi di me stesso. Non mi conoscevo o non sono più quello di prima, l’unica certezza che non sono più il Melo di prima”.
Legge tanto, Carmelo, saccheggia la biblioteca del carcere, scorre i quotidiani, si immerge nei testi che riceve : “Mi piace leggere, solo leggendo si va fuori di qua e si vivono vite che aiutano a continuare a vivere”. Sollecitato da Carmela, ha anche scritto. Tanto e di tutto. Dentro quelle lettere ci sono questioni sociali, temi di attualità, spunti filosofici, dalla riflessione sulle ‘vedove bianche’, le donne dei detenuti condannati all’ergastolo o a lunghe pene detentive, all’analisi del significato di spazio e tempo per chi vive dietro le sbarre. La sua amica lo esorta anche a scrivere qualcosa sui periodi più bui del suo passato, per esempio i mesi di latitanza. Guidotto resiste, temporeggia, quando si decide a fare i conti con questa parte di sé, non sappiamo cosa abbia scritto. Il riserbo della sua interlocutrice lo protegge. E se racconta qualche episodio della sua fanciullezza, “salta” l’adolescenza, che dichiara di non aver vissuto, essendo divenuto “da fanciullo a uomo, o pseudo tale”. Sarebbe un “parlare di reati”, argomento su cui – pudore? rimozione? – non troviamo nelle pagine del libro una rielaborazione critica. Quelli che invece emergono con frequenza sono, insieme a ricordi e sentimenti, i colori e profumi della nostra Sicilia, come quelli liberati dal vento che scuote i cespugli della “jnestra”.
“Quando finisco di scrivere…sento l’animo mio volteggiare sulle sciare coperte di fiori di ginestra”. “La libertà che mi dà la penna non l’avevo mai capita, oggi sì”.
Carmelo Guidotto, ergastolano, è già “evaso”. I libri e l’amicizia sono stati i grimaldelli che hanno aperto le porte del carcere e lo hanno portato all’esterno. E non c’è “fine pena mai” che possa adesso tenerlo dietro le sbarre.
Fonte: Argo Catania